Teresa Ciabatti, Sembrava Bellezza

(articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno di domenica, 14 febbraio 2021)

Nel suo nuovo romanzo, Sembrava bellezza (Mondadori, pp. 240, € 18,00), Teresa Ciabatti torna a percorrere quei territori dell’autofiction, cioè della autobiografia di fatti non accaduti, già frequentati con successo ne La più amata (finalista al Premio Strega 2017). Immergere avvenimenti reali in un flusso che li falsifica e creare un proprio avatar di carta, sembrano rappresentare per l’autrice toscana il mezzo migliore per cogliere, sia pure al prezzo di uno spietato autodafé, quegli aspetti più difficilmente dicibili della nostra vera vita, emotiva e intellettuale: la vergogna, l’invidia, l’inadeguatezza, l’imbarazzo e il trauma. 

Colei che in Sembrava bellezza dice io è una donna di mezza età, senza nome, una scrittrice di fama, una vita tra noiose presentazioni, interviste e reportage per importanti periodici culturali. Un matrimonio fallito alle spalle, tanti amanti occasionali, il corpo che cambia a causa della menopausa, una figlia ventenne, Anita, che la detesta. E soprattutto la paura di perdere il successo conquistato grazie a un rabbioso desiderio di rivalsa. In passato la Scrittrice è stata «un’adolescente di provincia trasferitasi in città per la separazione dei genitori», «una ragazzona triste, impaurita, complessata, derisa, rabbiosa», studentessa al Liceo Mamiani di Roma, quartiere Parioli. Una sola amica, Federica, anche lei sovrappeso, anche lei un’isolata. Le due dopo trent’anni si ritrovano, tornano a frequentarsi e a condividere il presente. Con Federica ricompare anche Livia, la sua bellissima e invidiatissima sorella maggiore, la reginetta della scuola, che, diciassettenne, a seguito di un misterioso incidente, ha subito danni neurologici irreversibili. Ora è una cinquantenne con la mente di una ragazzina, una eterna adolescente per la quale il tempo non si è mai fermato: eppure sembrava bellezza la sua… 

«Questa – sottolinea la Scrittrice – è la storia di Livia, ma nel profondo, in senso universale, è la storia delle ragazze di quella generazione». La generazione di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, scomparse, secondo una leggenda metropolitana in auge in quel periodo, nelle botole dei camerini dei negozi di Via del Corso. Ciabatti in Sembrava bellezza mette dunque in scena un io letterario, che è anche un noi generazionale, un io riferito a una donna che scrive nel 2021 per andare alla ricerca di quella ragazza che è stata nei primi anni Ottanta e capire chi è oggi («non dipende forse dall’adolescenza l’adulto che sei?»). Più che raccontare un episodio di giovinezza, oggetto di indagine è l’identità sepolta sotto tutti gli anni che sono passati dalla fase dell’adolescenza. Così dal confronto tra l’io di ieri, quello di una ragazza che non sa nulla del futuro, e l’io di oggi, impegnato a rintracciare il passato, si ha come risultato l’esplorazione di un magma incandescente, che non consente di cambiare ciò che è stato, ma di gettare una luce diversa sui propri sentimenti e sui propri affetti: «evolvere non è una questione di intelligenza, ma di esperienza». Ma Sembrava bellezza è anche un romanzo di corpi, che Ciabatti, autrice capace come poche di operare al meglio quella strana forma di metempsicosi permessa dalla scrittura, attraversa e muove con abilità. Ai corpi appartengono gli ultimi, indistinguibili sussulti di energia, una reattività che ha origini profonde e che, se non arresta le derive della mente, almeno rende possibile qualche avvicinamento, qualche tensione e la percezione di sé nell’urgenza imprescindibile della pulsione e del pentimento.

Senza pietà

Curata da Colomba Rossi, Senza pietà (CentoAutori, pp. 160, €14,00) è una antologia che riunisce undici racconti noir, usciti sulle pagine del «manifesto» nelle estati tra il 2010 e il 2012. Una idea, una delle tante, di Benedetto Vecchi, indimenticato responsabile delle pagine culturali del quotidiano comunista, scomparso a soli sessant’anni il 6 gennaio 2020: alla sua memoria il libro è dedicato. Vecchi, «critico letterario acuto e rigoroso» – ricorda Massimo Carlotto nella prefazione – aveva ben compreso da tempo «il senso e il ruolo della letteratura di genere, di cui era un gran lettore e sostenitore». Il noir infatti rappresentava, a suo avviso, «un artificio per mantenere alto il tasso di passione civile e di denuncia delle piccole e grandi malefatte della società capitalistica». Uno strumento formidabile di indagine della realtà per la sua capacità di offrire una visione del mondo non frontale, ma, per così dire, di sghembo, cioè dal punto di vista ‘sbagliato’, per riflettere sul male, sul senso delle etiche moderne e soprattutto sulla loro fragilità.

È quanto avviene nelle undici storie di Senza pietà, frammenti di vita oscura e crudele, che poste in successione dannolo spaccato di una società italiana sviluppata in senso tremendamente verticale, secondo un vero e proprio darwinismo sociale in cui i forti, i furbi, i potenti e gli “adeguati” sono selezionati “naturalmente”. Ecco così il quadro aziendale ridotto in miseria e costretto a vivere in un SUV, del racconto di Alessandro Baustasi. La giovanissima prostituta ungherese, che non capisce perché il suo ‘mestiere’ in Italia viene anche indicato con la perifrasi “fare la vita” («a me è sembrato solo tutto orribile e che di vita non ci fosse nemmeno l’ombra»: Stefano Cosmo). La spietata cacciatrice di pedofili. L’avvocato privo di scrupoli di Marco Videtta («la legge è meravigliosa perché si può sempre trovare un vizio di procedura»). La cocaina che come un virus si trasferisce da persona a persona (Michele Ledda). E poi il Vero Uomo Padano che «sopravvive a tutto, anche alla regina delle polmoniti» (Lorenzo Mazzoni). E poi i reati ambientali, veri e propri crimini contro l’umanità (Andrea Melis e Pasquale Ruju); l’imprenditoria al soldo della criminalità nazionale e internazionale; le discutibili politiche economiche statali, con gli agricoltori costretti a pensare che sia meglio «lasciare la terra alle bestie, che almeno loro avrebbero trovato di che sfamarsi» (Michele Ledda). Due le autrici presenti nell’antologia con altrettanti racconti dedicati alla realtà dei campi Rom. L’uno ispirato a fatti accaduti sulla scorta delle informazioni fornite dall’Associazione 21 luglio (Paola Staccioli). L’altro, a firma di Sara Bilotti, adotta invece il punto di vista di una bambina che trasforma la realtà degradata in cui vive in un mondo in guerra, dove tutto è razionato e dove «l’unica cosa che non finisce sono i libri, perché è vietato comprarli». Grazie al furto di un dizionario e di qualche classico la piccola riuscirà a collegare le parole alle cose e a comprendere la realtà in cui vive.

Scheletri nell’armadio di Zerocalcare

(articolo uscito sulla “Gazzetta del mezzogiorno” del 13 gennaio 2021)

«Se dovessi scegliere tra definirmi un intellettuale o una foca ammaestrata mi riconoscerei di più nella foca ammaestrata». Michele Rech, alias Zerocalcare, ha sempre rifiutato il ‘patentino’ di intellettuale di volta in volta attribuitogli, ma è indubbio che i suoi ‘disegnetti’ offrono un contributo fondamentale al racconto e all’interpretazione del nostro contemporaneo. Il cartoonist romano ha infatti creato un mondo, ormai popolarissimo e multimediale, abitato dal suo alter ego e da personaggi cult come Secco, Sarah, l’Amico Cinghiale, l’iconico Armadillo, protagonisti di storie caratterizzate da un efficace e originale mix di autobiografia, fiction, cultura pop, gergo romanesco giovanile e temi solitamente appannaggio del giornalismo di inchiesta.

Con il suo nuovo libro, il più bello, il più commosso e il più amaro, Scheletri (Bao Publishing, pp. 288, € 21), Zerocalcare ci porta indietro nel tempo, agli inizi del 2002, quando diciottenne con una improbabile cresta rossa da punk, fingeva di andare all’università per non deludere sua madre. Una vita da impostore, fatta di viaggi continui sulla metro, in compagnia delle sue coscienze, tra cui una con le fattezze di Noam Chomsky (che ora firma appelli «insieme a gente che reclama il diritto di dire zozzerie razziste e sessiste», mentre «vent’anni fa era uno con una statura intellettuale enorme») e di mostri neri che albergano come ‘demogorgoni’ nel suo stomaco, simboli di malessere e di inadeguatezza.In uno di questi suoi giri continui sulla tratta Rebibbia-Laurentina, Zero ha modo di incontrare Arloc (scritto così senza la h e la k finali, a differenza del Capitano creato da Leji Matsumoto), un writer sedicenne, cresciuto sulla strada, privo di modelli familiari, piccoletto, ma con coraggio (o incoscienza) in abbondanza, tanto da affrontare e sfidare tipacci più grandi e numerosi di lui, armandosi di bottiglie rotte. Nasce tra i due una amicizia, fondata sulla condivisione di segreti e bugie, resa sempre più complicata dal mistero di un dito mozzato…

In Scheletri Zerocalcare racconta una storia di rapporti personali, amori e amicizie, che cambiano o forse più semplicemente’ marciscono’, toccando con leggerezza e profondità temi delicati, come la tossicodipendenza, la misoginia e soprattuttola paternità, vista non soltanto come segno ineludibile del tempo che passa: diventare padriequivale anche a rivisitare le vicissitudini emotive legate alla propria figura e al proprio essere prima di tutto figlio. Un romanzo di formazione dunque, in cui Rech senza indulgenza e narcisismo, rivede sé stesso adolescente per fare luce sulle scelte che lo hanno fatto diventare quello che è ora. In questo senso i riferimenti a cartoni animati, film, giochi e serie tv degli anni ‘80 e ‘90, meno numerosi rispetto agli altri lavori, non hanno una carica nostalgica, ma rappresentano dei tasselli utili alla (ri)costruzione della propria identità. Diversa nei toni e nella scelta grafica – si tratta di un libro illustrato con qualche vignetta – è A babbo morto (Bao Publishing, pp. 80, € 11), “una storia di Natale” (questo il sottotitolo) nerissima e cinica, pubblicata da Zerocalcare un mese dopo Scheletri. Si inizia con la morte di «Babbo Natale, magnate dei giocattoli e padrone della Klauss Inc.», con relativo vuoto di potere. Seguono uno scandalo che si abbatte su Figlio Natale, dopo la pubblicazione di fotografie che lo ritraggono in abiti nazisti sadomaso durante una festa privata. E poi le ingiustizie subite dagli operai folletti, sfruttati dalla fabbrica dei giocattoli. Le befane ridotte a rider sottopagate. Le Renne come mezzo di trasporto attento all’inquinamento ambientale e quindi ai tempi che corrono. È il lato oscuro del Natale: «se proprio dovete fare dei figli, almeno dite loro la verità».

“Desideri deviati” nella Milano da bere

(articolo pubblicato sulla “Gazzetta del mezzogiorno” del 6 gennaio 2021)

Con quello che è indubbiamente il suo capolavoro, l’opera fiume La scuola cattolica, Edoardo Albinati più che scrivere un libro sul massacro del Circeo e/o sugli anni Settanta a Roma, aveva tentato con successo un esperimento estremo di narrazione in prima persona, dove a dominare non era tanto la presenza di un io testimoniale, quanto il suo ragionare ossessivo e divagante. Ebbene, dopo la breve parentesi interlocutoria di Un adulterio (2017), storia di una fuga d’amore su un’isola deserta, con Cuori fanatici, uscito nel febbraio 2019, Albinati ha avviato un ciclo dal titolo Amore e ragione, di cui Desideri deviati (Rizzoli, pp. 416, € 20) è il secondo capitolo. Si tratta diun altro importante progetto anch’esso di ampio respiro, quale il racconto dell’Italia all’alba dei camaleontici anni Ottanta: «un’epoca radicale e fanatica durante la quale nessuno si accontentava di quello che era, nessuno era soddisfatto di quello che faceva o del modo in cui lo faceva. Bisognava andare oltre e afferrare la pienezza». 

Desideri deviati non è tuttavia un seguito in senso stretto di Cuori fanatici, anche se i due romanzi condividono impostazione, narrazione corale e alcuni personaggi, a partire dal protagonista, Nico Quell, ‘musiliano’ ragazzo senza qualità, figlio di un diplomatico gambizzato non si sa perchè dalle Brigate rosse, studi in Svizzera e lavoro presso una casa editrice. A differire è invece la location, milanese invece che romana. Milano, «la città del Nord», che forse non esiste, magari è semplicemente un fumo, come scrive Tommaso Landolfi in un suo celebre racconto. Una città, di lì a poco ‘da bere’, che oscilla in quegli anni, tra «immagini di totale praticità e spreco sontuoso, tra il realismo più terrestre e il sogno sfrenato, producendo uno sfavillante corto circuito tra buon senso e follia». 

È la Milano capitale di due mondi dissimili, che a volte si incrociano tra loro: la moda e l’editoria. Da un lato le modelle, «creature lunari», corpi ossimorici e al tempo stesso virtuali. Dall’altro l’editoria, «mondo di mezzo tra cultura e industria, senza essere né l’uno né l’altro». Intorno a una casa editrice ruotano più o meno direttamente i numerosi personaggi del romanzo, a partire dall’editore Tito Livio Minaudo (Livio come Livio Garzanti? Minaudo in assonanza con Einaudi?), uomo tutt’altro che elegante, incapace di pensare al prossimo, se non in termini editoriali. C’è il suo geniale figlio Leopoldo, detto Quadratino. Ed ecco il Coboldo, l’uomo forte della azienda, colui che ha letto tutto, colui che decide quasi tutto, cinico e dall’aspetto sgradevole, convinto che l’arbitrio sia il solo strumento per esercitare il potere in ogni ambito. Ricordiamo ancora l’enigmatica Sheila, modella afroamericana; Chirone, il mentore di Nico Quill e la di questi sorella ritrovata Irene, nonché i vari componenti della redazione editoriale (notevoli e caustiche le pagine dove si discute intorno alla figura dell’intellettuale rigoroso). E poi la «coppia diabolica» formata dai coniugi Igor e Vera Macchi, entrambi architetti, abilissimi «nel creare occasioni in cui gli invitati si sentissero lusingati dalla presenza di altri invitati che potevano supporre più importanti di loro, più ricchi di loro o ancora più alla moda». Nel loro spettacolare party, proprio al centro del romanzo, momento di svolta della vicenda, si incrociano, dissociano, scompongono le traiettorie dei vari personaggi, i cui desideri sono costantemente deviati. Non può essere diversamente. Il desiderio coincide con il senso della pienezza della nostra esistenza. È passione, è mancanza, è spinta a realizzare sogni, spesso ritenuti impossibili. Il desiderio si mette di sbieco rispetto alla volontà: è sovversivo perché va controcorrente nei riguardi del “buon senso” uniformato al sentire comune. E questo tanto più nella città del Nord, dove – osserva Chirone – bisogna sempre e comunque «fare i conti con la realtà, col dato nudo e crudo, il fondamento delle cose: economia, potere, industria, rapporti di forza. In questa città la gerarchia esiste, altroché, esiste per davvero, ed è quella del denaro. Senza compromessi o camuffamenti. Esplicita, comprensibile a tutti. Violenta com’è sempre violenta la chiarezza».

E se poi ci svegliassimo negli Anni Venti?

(articolo apparso sulla Gazzetta del Mezzogiorno dell’11 dicembre 2020)

In una delle prime pagine della Signora Dalloway, capolavoro di Virginia Woolf pubblicato nel 1925 e ambientato, come è noto, in una giornata di giugno del ‘23, apprendiamo, sia pure implicitamente, che la protagonista è sopravvissuta all’epidemia di Spagnola del 1918. La scrittrice inglese consegna uno dei suoi personaggi più celebri alla storia della letteratura così, con addosso le cicatrici fisiche, ma soprattutto mentali di una pandemia. Allora la festa della signora Dalloway viene ad assumere un connotato meno frivolo, diventa dimostrazione di vitalità, voglia di tornare a catturare il quotidiano in tutti i suoi aspetti, anche quelli meno significativi. Sono, a ben guardare, quegli stessi segni che porteremo quasi sicuramente – chi più lievi, chi più gravi e profondi – con noi negli anni Venti del XXI secolo. 

È questo uno dei tanti giochi di specchi, rimandi e rimbalzi, assonanze e dissonanze, che animanoil nuovo libro di Paolo Di Paolo, Svegliarsi negli anni Venti. Il cambiamento, i sogni e le paure da un secolo all’altro, (Mondadori). Allo ‘spirito del tempo’ lo scrittore romano aveva dedicato un saggio Tempo senza scelte, uscito per Einaudi nel 2016: una riflessione su un contemporaneo, volto a impedire la scelta e l’autodeterminazione, favorendo al contrario l’apatia. In questo suo nuovo lavoro invece l’attenzione è focalizzata sui passaggi epocali, «quelli in cui il calendario dei fatti e quello dei sentimenti combaciano». Cosa rara. Lo evidenzia il Franz Werfel di Morte di un piccolo borghese, requiem in forma di racconto di un Impero austro-ungarico, ormai travolto dalla guerra, citato in epigrafe: «appartenere a due mondi, abbracciare con un’anima sola due epoche», è una condizione che tocca solo a poche generazioni.

Di fronte a un tempo in continua trasformazione, secondo Di Paolo, bisognerebbe comportarsi come l’ebreo polacco settantenne sopravvissuto all’Olocausto, protagonista del romanzo di Saul Bellow Il giardino di Mr. Sammler (1970): «addestrarsi», «essere sufficientemente forti per non rimanere terrorizzati di fronte agli effetti locali della metamorfosi». Coadiuvato dalle due assistenti virtuali di Amazon e di Apple, Alexa e Siri (ogni sezione del libro inizia con una domanda ‘esistenziale’ rivolta a loro: come stai?, quanti anni hai?), l’autore rimbalza, come «uno strano animale nel mezzo di una muta» (così si definisce), tra passato, presente e futuro, concepisce il libro come «corridoio spazio-temporale, uno spericolato tunnel da epoca a epoca». «Appassionato agli scrittori, agli artisti, alle loro vite», Di Paolo disegna un itinerarioche va, solo per citarne alcuni, dalsuo autore feticcio Piero Gobetti, cui ha già dedicato il romanzo Mandami tanta vita (2013) a Henry Miller, dallo scienziato pacifista Niels Bohr a Kiki de Montparnasse, al secolo Alice Prin, figura iconica della Parigi ‘ruggente’. E poi l’omaggio alla casa museo di Sigmund Freud, il viaggio a Merano nel segno di Kafka e quello sui luoghi di Thomas Mann, lo scrittore in fuga dal nazismo, che nelle cinquecento pagine di Considerazioni di un impolitico del 1918 aveva lodato lo spirito tedesco, rivendicandone la superiorità. Considerazioni in seguito ritrattate sia pure tardivamente, forse attribuibili a uno spirito del tempo, voglioso di un riscatto, dopo una sconfitta e una punizione giudicata eccessiva. Eppure, scrive Di Paolo, «un secolo dopo, lampeggiano intermittenti nel dibattito internazionale parole come identitarismo, sovranismo, nazionalismo. Non le avevamo archiviate?»

Pensieri tra le nuvole

(articolo pubblicato sull’Indice dei libri del mese, novembre 2020)
Tito Faraci è uno degli sceneggiatori di punta del fumetto seriale italiano, infaticabile creatore di storie per personaggi popolarissimi come Tex, Dylan Dog, Diabolik, Topolino, Spider-man, solo per citarne alcuni, oltre ad essere il curatore della Feltrinelli Comics, prestigiosa collana di fumetto da libreria (o di graphic novel, se si preferisce). Come già nel romanzo d’esordio, La vita in generale(2015), anche in questa sua seconda opera letteraria, Spigole, Faraci si rifà a un tema molto ricorrente nella narrativa e nel cinema, quello della seconda possibilità, del cambiare vita per ricercare una felicità, percepita come perduta. Il protagonista del romanzo, Ettore Lisio, vive a Milano, scrive fumetti e ha un passato da musicista. È divenuto un autore di culto negli anni Novanta, creando, sulla scia del clamoroso successo di Dylan Dog, il personaggio di Doc Diablo. Un successo di cui però non è particolarmente orgoglioso. Chiusa questa esperienza, ora sceneggia le storie del Ranger (chiarissimo riferimento a Tex), che si fondano su uno schema narrativo particolarmente rigido, su cui esercita un ferreo controllo tanto il boss della casa editrice (in cui possiamo riconoscere Mauro Boselli), quanto i lettori, sempre critici ed esigenti. (Nel romanzo vi è una recensione tratta da un immaginario webmagazine “Pensieri fra le nuvole”, a firma Simone Alberighi, a ricordare Simone Albrigi, alias Sio.)

Così Lisio – legatissimo alla figlia Patrizia, la cui presenza in qualche modo surroga l’assenza della moglie morta prematuramente – passa le sue giornate davanti al computer a escogitare situazioni rocambolesche per il suo eroe e a inventare trappole da cui farlo uscire brillantemente, avvalendosi a volte dell’aiuto dell’amico romano Roberto (omaggio a Roberto Recchioni, attuale curatore delle serie di Dylan Dog). Questo percorrere sentieri narrativi ristrettì e ripetitivi, continue variazioni sul tema, genera in Ettore una certa stanchezza. Gli viene così in mente di abbandonare il lavoro fumettistico per rilevare una pescheria, che nel frattempo ha chiuso la sua attività. Vendere spigole dunque: «Non ci sono i Grandi Classici della Spigola, a cui baciare il culo tutto il giorno. Non c’è da pensare. Se è fresca, è fresca. Non succede che sembra che non sia fresca, però è perché qualcuno ha fatto un’operazione revisionista e sono io che non capisco, non ci arrivo. Non c’è il meta-pesce. Non c’è il revival del vecchio pesce. Non torna di moda il pesce di una volta». Rilevare quella pescheria non è però cosa semplice. Ettore si trova coinvolto suo malgrado – e con lui i suoi amici fidati – in una vicenda noir, dinamica e ricca di colpi di scena. E sarà proprio la sua capacità di inventare storie – e saperle raccontare – a consentirgli di fronteggiare il ‘cattivo’ in cui s’imbatte e salvare la giovane donna che è finita tra le sue grinfie.

Facendo leva su un personaggio parzialmente autobiografico, Faraci organizza un romanzodalla marcata impronta metanarrativa, dove il fare fumetti è visto nella dimensione concreta di lavoro, con date di consegna precise, regole canoniche da rispettare, e poi lo storytelling, dove tutto deve avere una collocazione precisa). Ma Spigole è anche un grande atto d’amore nei confronti di Milano, specie quella dei Navigli, raccontata come luogo narrativo senza cadere nelle trappole dello stradario. Una Milano che ha un’anima e che interviene nella narrazione, facendo da cornice alle vicende di Ettore e dei suoi pard. Una Milano che non dorme mai, fatta di sogni e di incubi. Masoprattutto di storie immaginate e reali: «nel momento in cui la raccontate, ogni storia è inventata. Quando la rendete credibile, ogni storia è reale».

Luciano Bianciardi: «Che cosa significa la parola “Intellettuale”?»

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Che cosa significa, per cominciare, la parola “intellettuale”? Un autore che in questo dopoguerra ebbe particolare e meritata fortuna fra i lettori di sinistra affermò che per intellettuale deve intendersi chiunque non eserciti un mestiere manuale. Una definizione generosa, abbondante e perciò poco attillata, che andava larga: dal prete al portalettere, su su fino a Benedetto Croce, tutti quanti cadevano nel centone della intellettualità. Rinunciamo subito a questa definizione e rivolgiamoci al dizionario. Ne esistono molti a buon prezzo, e del resto li possiamo consultare gratuitamente nelle biblioteche. Continua a leggere “Luciano Bianciardi: «Che cosa significa la parola “Intellettuale”?»”

Antonio Gramsci, Arte e cultura

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Arte e cultura. Che si debba parlare, per essere esatti, di lotta per una «nuova cultura» e non per una «nuova arte» (in senso immediato) pare evidente. Forse non si può neanche dire, per essere esatti, che si lotta per un nuovo contenuto dell’arte, perché questo non può essere pensato astrattamente, separato dalla forma. Lottare per una nuova arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali, ciò che è assurdo, poiché non si possono creare artificiosamente gli artisti. Si deve parlare di lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale che non può non essere intimamente legata a una nuova intuizione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà e quindi mondo intimamente connaturato con gli «artisti possibili» e con le «opere d’arte possibili». Che non si possa artificiosamente creare degli artisti individuali non significa quindi che il nuovo mondo culturale, per cui si lotta, suscitando passioni e calore di umanità, non susciti necessariamente «nuovi artisti»; non si può, cioè, dire che Tizio e Caio diventeranno artisti, ma si può affermare che dal movimento nasceranno nuovi artisti. Un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo intimo personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente in un certo senso. Cosí non si può dire che si formerà una nuova «aura poetica», secondo una frase che è stata di moda qualche anno fa. L’«aura poetica» è solo una metafora per esprimere l’insieme degli artisti già formatisi e rivelatisi o almeno il processo iniziato e già consolidato di formazione e rivelazione (Q 23, 6, 2192-3).

William Somerset Maugham, Il mago

(articolo pubblicato su Culturificio)

La Parigi di fine Ottocento e inizio Novecento vede la proliferazione di movimenti radicati nelle pratiche dell’occultismo. Jules Bois, uno dei testimoni più attenti alla diffusione del fenomeno, specie presso gli strati più altolocati della società, raccoglie in un suo libro significativamente intitolato Les petites religions de Paris (1894), una preziosa serie di testimonianze dirette circa teorie e applicazioni pratiche da parte dei circoli esoterici sorti nella capitale francese. Si tratta di una vera e propria moda, che riceve un grande impulso dalla pubblicazione del romanzo maudit di Joris-Karl Huysmans, Là-bas, L’abisso (1891), dove troviamo forse la più famosa descrizione letteraria di una messa nera, destinata ad essere un modello ineludibile per generazioni di satanisti. In quegli anni torna a vivere a Parigi William Somerset Maugham, allora trentenne con alle spalle studi medici, non ancora raggiunto dalla ricchezza e dal successo che gli arrideranno di lì a poco, a partire dalla messa in scena della commedia Lady Frederick (1907). Qui, o per meglio dire nell’ambasciata britannica, dunque su suolo inglese, dove il padre lavorava come avvocato, era nato nel 1874, per trasferirsi in Inghilterra in casa dello zio, nominato suo tutore alla morte dei genitori. Alloggia dapprima in un alberghetto della rive gauche, poi in un appartamentino, che divide con il coetaneo e connazionale pittore Gerald Kelly, studi a Eton e Cambridge, uniti a grande entusiasmo e curiosità intellettuale.

E appunto nell’inverno del 1906 a Parigi, in un ristorante bohemien di boulevard Montparnasse, Le Chat Blanc, frequentato da artisti di varia nazionalità, Maugham incontra il celebre e discusso occultista Aleister Crowley. Di lui ha già sentito molto parlare nei salotti parigini. Figura eccentrica e inquietante come poche, noto per la sua capacità di manipolare e plagiare i suoi adepti, “la Grande Bestia” (questo uno dei suoi tanti soprannomi) desta subito nello scrittore inglese curiosità, ma non certo simpatia. «Mi è apparso subito antipatico, – scrive Maugham, in uno scritto del 1956, A fragment of autobiography – ma mi interessava e mi divertiva. Era un gran chiacchierone e parlava insolitamente bene. Nella prima giovinezza, mi è stato detto, era estremamente bello, ma quando l’ho conosciuto era ingrassato e i suoi capelli si stavano diradando. Aveva begli occhi e un modo, naturale o acquisito, non so, di focalizzarli in modo tale che, quando ti guardava, sembrava guardare dietro di te». Per poi aggiungere: «Era un bugiardo e un incorreggibile vanaglorioso, ma la cosa strana era che aveva effettivamente fatto alcune delle cose di cui si vantava» (traduzione mia, NdA). Tra queste, ad esempio, il tentativo di scalare il K2, fallito a causa delle condizioni meteo sfavorevoli, dell’equipaggiamento inadeguato e dell’enorme e insostenibile sforzo fisico richiesto al gruppo, capeggiato da Oscar Ekenstein, uno dei più celebri alpinisti di tutti i tempi.

Da sempre affascinato da figure bigger than life, molte delle quali conosciute direttamente nel corso di una vita movimentata e fitta di incontri importanti, Maugham  elegge Crowley a modello del personaggio di Oliver Haddo, protagonista del suo unico romanzo horror, Il mago, The Magician, scritto nei primi sei mesi del 1907 e pubblicato nel 1908, ora proposto da Adelphi nella elegante e puntuale traduzione di Paola Faini in una edizione che curiosamente esclude il ‘frammento autobiografico’ del 1956.. 

Come molti titoli della narrativa gotica, Il mago, ambientato tra Parigi e Londra, racconta il conflitto, tra scienza e magia, all’interno della cornice di una storia d’amore, seduzione e possesso, che vede coinvolti cinque personaggi ‘figure’, portatori e mediatori, istanze e questioni socio-culturali, quali il prometeismo da perseguire ad ogni costo; la ragione aridamente positivista; la scienza sensibile alle istanze del soprannaturale; la bellezza e naturalmente l’amore. Haddo agisce come un vampiro. È infatti un seduttore e ha bisognoso del sangue delle sue vittime per portare avanti i suoi esperimenti. In particolare, sulla scorta delle teorie di Paracelso, persegue la creazione degli homunculi, misteriosi esseri dall’aspetto orribile e demoniaco, conservati in vasi colmi di acqua, in cui a intervalli di tempo prestabiliti, viene versato del sangue, che scompare immediatamente e inspiegabilmente. Via di mezzo tra il barone Von Frankenstein e il dottor Moreau, Haddo desidera «essere come Dio». Per lui «la magia non è altro che l’arte di impiegare consapevolmente mezzi invisibili per produrre effetti visibili», mentre il mago è colui che dispone abilmente di armi come la «scienza studiata tanto pazientemente», la «sopportazione», la «forza», la «volontà» e «l’immaginazione». Agli occhi di Arthur Burden, giovane e brillante medico chirurgo, nato in Oriente – una vita consacrata alla medicina, per una dichiarata mancanza di immaginazione, umorismo e altri interessi – Haddo è senza dubbio uno spregevole ciarlatano. Arthur è fidanzato con Margareth Dauncey («ogni millimetro in lei è bellezza», tiene a sottolineare). Della ragazza, dotata di una spiccata sensibilità per le arti, rimasta orfana in tenera età, il medico, molto più giovane di lei (aveva dieci anni quando l’ha conosciuta, diciassette quando le ha fatto una proposta di matrimonio), è tutore ed esecutore testamentario: la sposerà dopo un soggiorno ‘formativo’ di due anni a Parigi, dove avrà come accompagnatrice e istitutrice la trentenne Susie Boyd, come da convenzione segretamente innamorata di Arthur. Completa il quartetto dei ‘buoni’, il mentore di Arthur, l’anziano dottor Porhoët, medico e studioso curioso, la cui insoddisfazione nei confronti delle discipline tradizionali, lo ha spinto verso i lidi dell’esoterismo, tanto da pubblicare un volumetto sugli alchimisti, frutto di lunghe ricerche alla Bibliothèque de l’Arsenal a Parigi, punto di riferimento tra Otto e Novecento degli occultisti di tutto il mondo, dato il notevole e importantissimo corpus di testi esoterici, ivi conservato. «Un tempo – confida a un certo punto ad Arthur, che ha una fede incrollabile nella scienza – leggevo molti testi di filosofia e scienze, così ho imparato che non esiste nulla di certo. Alcuni, seguendo la scienza, sono impressionati dalla dignità dell’uomo, mentre io diventavo sempre più consapevole della sua insignificanza». Margareth prova all’inizio per Haddo un forte disprezzo, poi ne è morbosamente e insanamente attratta, «come se nel suo cuore fosse stata seminata una pianta infestante, che insinuava i lunghi tentacoli velenosi in ogni arteria»: fugge con lui in Inghilterra, dove lo sposa. Ad Arthur, coadiuvato dai suoi amici, non resta che affrontare il Fratello dell’ombra fino allo scontro finale. 

A dispetto di un plot tutto sommato convenzionale, sia pure gestito con abilità, spiccano nel Mago pagine dotate di una forte carica visionaria. Pagine bellissime che danno grande forza al romanzo. Si pensi a quelle in cui Haddo dinanzi a una riproduzione della Gioconda, riprende con enfasi le osservazioni di Walter Pater, volte a paragonare Mona Lisa a un vampiro, ma anche a Leda madre di Elena di Troia e sant’Anna madre di Maria. O ai passaggi in cui il Mago evoca dai recessi dei quadri, considerati organi vivi come gli homunculi, l’emergere delle pulsioni e delle ansie febbrili e inappagate degli artisti che li hanno creati. E ancora la catabasi di Margareth, trasportata in un luogo lontano e posta di fronte a una folla di ombre, destinate a sparire. Lo sguardo di lei si concentra su un grande albero spezzato, che a un tratto cambia nella ciclopica figura di Pan: prima osceno e ferino, poi trasmutato in «un giovane, titanico ma splendido, poggiato contro una roccia possente. Era più bello dell’Adamo di Michelangelo, svegliato alla vita dalla voce dell’Onnipotente; e come lui, appena creato, aveva l’incantevole languore di chi senta ancora nelle membra, la pioggia lieve sulla soffice terra bruna». 

Il visionario è l’unico vero realista

(articolo pubblicato sull’«Indice dei libri del mese», 7/8, luglio-agosto 2020; letto in gran parte nel programma radiofonico Pagina Tre, RaiRadioTre: https://www.raiplayradio.it/audio/2020/08/PAGINA-3–Sguardi-obliqui–d7d84f1e-e22b-435b-b453-747f369dd32c.html)

Federico Fellini ha a lungo accarezzato l’idea di portare sul grande schermo Le fiabe italiane di Italo Calvino. Ricorda Goffredo Fofi che il film sarebbe iniziato con un «C’era una volta un re che stava di casa di fronte a un altro re». Di questo progetto però non è rimasta alcuna traccia scritta, ma solo testimonianze di privatissime colazioni di lavoro nel pied à terre del Maestro a Cinecittà. D’altro canto, Le città invisibili sono state probabilmente fonte di ispirazione da un lato per la Venezia immaginaria del Casanova con le acque del Canal Grande ricreate con teli di plastica, dall’altro per la labirintica e onirica Città delle donne, in cui si perde Snaporaz/Mastroianni (peraltro quello delle Città invisibili è un progetto che Calvino sviluppa a partire dalla sceneggiatura di un film dedicato a Marco Polo, per la regia Mario Monicelli, destinato però a rimanere sulla carta). E in omaggio a Fellini, Calvino scrive nel 1974 la celebre Autobiografia di uno spettatore, nata come prefazione al libro Quattro film, che riuniva le sceneggiature dei Vitelloni, La dolce vita, e di Giulietta degli spiriti. Ed è Calvino a suggerire a Damian Pettigrew l’idea di Sono un gran bugiardo, documentario/intervista, in cui l’opera di Fellini viene considerata come il risultato delle sue bugie, cioè di quelle “finzioni supreme”, che rivelano la persona che le ha create. Di Calvino e Fellini è del resto nota la scarsa volontà di raccontarsi fedelmente: «io – confessa lo scrittore – sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente.) Perciò i dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra». Consapevolezza della menzogna che Fellini non sembra avere: «Sì, io i ricordi però guarda che me li invento molte volte. Non riesco più a fare una distinzione con le cose che sono proprio accadute, tanto è vero che mia mamma ogni tanto mi dice: “Ma quando mai tu sei scappato con il circo? Ma quando mai hai fatto…? Ma quando mai sei stato in collegio?” Invece a me pare proprio che è successo, vedi un po’ che cosa vuol dire avere un’immaginazione accesa». Fellini come “grande bugiardo, dunque. E grandi bugiardi, verso sé stessi e verso gli altri, sono a vario titolo i suoi personaggi, da Fausto (Franco Fabrizi) dei Vitelloni a Guido (Mastroianni) di 8 ½, dai truffatori del Bidone al Casanova, solo per citarne alcuni. E bugia è non a caso, una delle voci chiave scelte da Gianfranco Angelucci, amico e collaboratore di Fellini per oltre vent’anni, nel suo Glossario felliniano (Avagliano 2020).

Fellini e Calvino, quasi coetanei, hanno altri significativi punti di contatto biografici. Innanzitutto l’appartenenza a una città di riviera, adriatica per l’uno, ligure per l’altro; una adolescenza segnata dai rituali del regime fascista e da una educazione repressiva e traumatizzante, di stampo religioso per Fellini (quante grottesche figure di religiosi popolano il suo cinema!), di stampo laico, ma non per questo meno rigido, per Calvino («ho conosciuto solo la repressione laica, più interiorizzata e da cui è meno facile liberarsi»). E poi una voglia di raccontare scaturita dalla passione di entrambi per i fumetti, in particolare per le storie illustrate del «Corriere dei piccoli», pubblicate all’epoca senza i balloons, sostituiti da tre o quattro versi in rima baciata, collocati al di sotto di ogni disegno. Topolino, Mandrake il mago, Flash Gordon, il Gatto Felix e Buck Rogers popolano la loro fantasia. «Su quei vecchi giornalini a fumetti – racconta Fellini – la mia generazione ha trovato la possibilità di evadere e di contestare le processioni, le adunate, i campi Dux. […] La vera letteratura americana non è stata solo quella dei Faulkner e degli Steinbeck ma anche quella degli inventori di Arcibaldo, di Petronilla, di Dick Fulmine, di Braccio di Ferro. All’America abbiamo potuto perdonare tutto, anche l’imperdonabile, grazie alle immagini liberatorie che ci ha regalato attraverso i suoi fumetti e il suo cinema».

Fellini e Calvino sono contemporanei della nascita dell’immagine mediatica. Entrambi sono ben consapevoli del fatto che lo sviluppo concomitante del cinema e della stampa illustrata abbia determinato una nuova forma di rappresentazione: è il dispositivo mediatico a creare l’avvenimento e non viceversa. «L’esperienza della mia prima formazione è già quella d’un figlio della “civiltà delle immagini”, anche se essa era ancora agli inizi, lontana dall’inflazione di oggi», scrive Calvino nella “Lezione americana” sulla Visibilità. Anche Calvino ama disegnare: i suoi fumetti finiscono per essere pubblicati sul «Bertoldo», settimanale milanese diretto da Mosca e Metz, nella rubrica il “Cestino”, curata da Giovannino Guareschi (Calvino vince il concorso per la “vignetta più stupida dell’anno”). E poi c’è il cinema, di cui si nutre quotidianamente: in particolare quello hollywoodiano degli anni Trenta, visto già con un piglio da futuro narratore, con una particolare attenzione agli aspetti strutturali e convenzionali del racconto filmico. È dunque l’immagine, fumettistica o cinematografica che sia, a dare l’imprinting al percorso letterario e narrativo di Calvino. «Nell’ideazione d’un racconto – si legge in Visibilità – la prima cosa che mi viene alla mente è un’immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato […]. Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé». Anzi, le immagini – osserva Alessandra Sarchi nel suo recente “esercizio di lettura” dedicato a Calvino – sono per lui «carburante per la scrittura», e «oggetto di una riflessione teorica».

Dal canto suo, prima di lanciarsi nel mondo del cinema, Fellini realizza nel 1937 per il cinema Fulgor di Rimini, una serie di caricature di attori famosi e l’anno successivo «La Domenica del Corriere» pubblica le sue prime vignette umoristiche. Trasferitosi nel 1939 a Roma all’età di diciannove anni con la madre e la sorella, si guadagna da vivere come caricaturista (nel 1944 apre nella capitale un negozio, il Funny Face Shop, dove per poche lire disegna le caricature della gente di passaggio) e collabora come vignettista con riviste umoristiche, molto diffuse all’epoca, quali il «420», il «Marc’Aurelio» e il «Travaso». È stata da più parti osservata la corrispondenza in Fellini tra caricatura e concezione del personaggio, oltre all’influenza della comic strip sulla struttura narrativa fortemente frammentata delle sue opere (come ammesso, ad esempio, dallo stesso regista in occasione dell’uscita di Fellini Satyricon, film, a suo avviso, che deve più a Flash Gordon che non agli affreschi di Pompei). Il disegno non rappresenta per Fellini una attività propedeutica alla regia, a differenza di un cineasta come Alfred Hitchcock, che disegna per intero i suoi film, tanto da considerarli finiti prima ancora di girarli. Il disegno è per Fellini, dagli esordi al Libro dei sogni,dalle tavole realizzate da Topor per il Casanova all’incontro con Charles Schultz, fino alla lunga collaborazione con Milo Manara, con cui realizza i graphic novel Viaggio a Tulum e Il viaggio di G. Mastorna, una pulsione creativa ineludibile. Il mondo felliniano nasce sulla carta e finisce col dare vita a un universo di immagini, a un altrove, in cui realtà e sogno si armonizzano: una allucinazione paradossale, una percezione collettiva di oggetti, persone e luoghi assenti e per di più a “occhi spalancati e chiusi”, Eyes Wide Shut, per dirlo alla Kubrick. Il cinema è un sogno che nel suo farsi presente, è qualcosa di reale che ha effetti reali, è qualcosa che turba, che scuote, colpisce ed aumenta le nostre facoltà conoscitive. «Il visionario – secondo Fellini – è l’unico vero realista», “magnifico paradosso” che Oscar Iarussi elegge a incipit del suo prezioso «dizionarietto portabile» del mondo del regista riminese, Amarcord Fellini. L’alfabeto di Federico (il Mulino 2020).

Tanto Fellini quanto Calvino mostrano una certa diffidenza nei confronti del Neorealismo, cui negano il carattere di “scuola” o di “movimento organizzato e cosciente”. Lo scrittore nella Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno riconduce, come è noto, il suo romanzo di esordio del 1947 al clima generale del dopoguerra, quando «si era […] carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca». Nell’ottica di Fellini invece, il Neorealismo si riduce pressoché esclusivamente al magistero di Roberto Rossellini: «Il Neorealismo è solo ciò che ha fatto Roberto, anzi neppure, un unico film, Paisà. Anche Roma città aperta, per quanto importante era una storia di impianto tradizionale, raccontata secondo le convenzioni di sempre. E i film che sono venuti dopo si sono soltanto sforzati di orecchiare, hanno cercato di ripetere a casaccio una lezione irripetibile». Non a caso, nelle loro opere d’esordio, Calvino racconta la resistenza attraverso gli occhi di un bambino, privilegiando un punto di vista onirico e fiabesco, Fellini la fuga dalla realtà di provincia di una versione moderna di Emma Bovary dallo sguardo infantile, alla volta di un mondo da sogno dei fotoromanzi.

Calvino con la scrittura, Fellini con il cinema mirano a suscitare immagini da dove prima non c’erano oppure a (ri)vedere le immagini già viste sotto una diversa angolazione, cioè “vedere di più”, penetrare così a fondo nelle cose fino a trasfigurarle e pervenire ad un effetto di irrealtà. È lo sguardo calviniano dall’«opaco» verso l’«aprico» (cioè dal mondo nascosto nell’ombra quello illuminato dal sole splendente), al quale rimane fedele anche quando osserva paesaggi artificiali, creati dalla fantasia di altri artisti. È la parabola del signor Palomar, che si presenta come un “uomo cinema”, mosso dalla volontà di osservare quello che è intorno a lui al fine di trovare un’armonia in mezzo ad un mondo «tutto dilaniamenti e stridori». È l’Avventura del fotografo Antonino Paraggi, che rivolge l’obbiettivo della sua fotocamera su tutti quegli aspetti molecolari della vita di ogni giorno, cioè quegli aspetti che sfuggono allo sguardo degli uomini. È la «zona Masina» del cinema felliniano, che consiste, iuxta Calvino, in una visualizzazione infantile, disincantata, precinematografica d’un mondo “altro” (La strada mette in scena il circo e la figura malinconica del clown; Giulietta degli spiriti ha come «dichiarato riferimento figurativo e cromatico le vignette a colori del “Corriere dei piccoli”»).

Sono però poche le occasioni in cui Calvino riflette criticamente sull’opera di Fellini. Il suo primo approccio con La dolce vita è alquanto problematico. In particolare, Calvino, al pari di Alberto Moravia, contesta al film una rappresentazione dell’intellettuale (una novità per il cinema dell’epoca: oltre alla Dolce vita, si pensi a La notte di Michelangelo Antonioni o a Odissea nuda di Franco Rossi) come una figura velleitaria, disperata, talora irrazionalistica, in cui non si riconosce. È quanto avviene con il personaggio di Steiner, intellettuale suicida, interpretato da Alain Cuny, dopo il rifiuto di Elio Vittorini a ricoprire quella parte, ispirata alla figura di Cesare Pavese, compagno di classe dello sceneggiatore Tullio Pinelli al D’Azeglio di Torino, Cesare Pavese. Steiner è «uomo dotato d’ogni bontà e virtù (rappresentato per di più con un’untuosità insopportabile) ma libero pensatore e privo della grazia divina, e quindi […] destinato a trucidare i figlioletti e a spararsi un colpo in fronte!» Nella Autobiografia di uno spettatore Calvino chiarisce la natura dell’anti-intellettualismo di Fellini. Il Maestro contrappone «all’arida lucidità intellettuale raziocinante», «una conoscenza spirituale, magica, di religiosa partecipazione al mistero dell’universo». La traiettoria esistenziale del protagonista della Dolce vita, Marcello Rubini (Marcello Mastroianni), non rispecchia tanto una vicenda di perdizione, quanto una vicenda di formazione ed emancipazione da una serie di illusioni, quali l’arte, la cultura, il successo, con il raggiungimento di uno sguardo più disincantato, “distante”, e quindi veritiero sulle cose.

Dieci anni dopo l’Autobiografia, Calvino torna a scrivere di Fellini, partecipando al lungo, e articolato, dibattito critico suscitato dall’uscita nel 1983 di E la nave va. «Il viaggio che il film racconta è un funerale. nelle prime sequenze appare un carro funebre che delega alla nave «Gloria N.» la sua funzione d’accompagnare le ceneri della famosa soprano alla loro sepoltura acquatica. Il nero è il colore che domina nell’abbigliamento dei personaggi, come si conviene a una tale cerimonia. […] tutti questi signori non è al funerale della diva che stanno partecipando, ma al proprio». Il naufragio della Gloria N. sintetizza due miti del Novecento: il naufragio del Titanic e l’attentato di Sarajevo. Del resto, quello apocalittico è un tema ricorrente in Fellini: si pensi alla fine del mondo pagano in Satyricon, del mondo putrescente e corrotto dell’Italia fine anni Cinquanta nella Dolce vita e del mondo della giovinezza in Amarcord. Tuttavia – osserva Calvino – in E la nave va Fellini sembra suggerirci che «la fine del mondo è diventata il nostro habitat naturale» e quotidiano. Un habitat da cui è impossibile sfuggire.

Testi citati

Gianfranco Angelucci, Glossario felliniano. 50 voci per raccontare Federico Fellini, il genio italiano del cinema, Avagliano, Napoli 2020 (pp. 296, € 19,00)

Oscar Iarussi, Amarcord Fellini. L’alfabeto di Federico, il Mulino, Bologna 2020 (pp. 248, € 16,00)

Alessandra Sarchi, La felicità delle immagini, il peso delle parole. Cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati, Bompiani, Milano 2019 (pp.192, €17,00)